martedì 28 settembre 2010

Usata in ufficio



Da quando la mia amante, F., aveva accettato di essere completamente mia, e di essere usata in qualsiasi modo io desiderassi, di solito le ordinavo di aspettarmi di sera nel mio appartamento, vestita solo del suo collare.

A volte, se sapevo che sarei rincasato tardi, o se il mio desiderio era più forte, chiamavo F. per usarla nel mio ufficio. Lasciavo a lei la scelta sui dettagli dell'abbigliamento. L'importante era che la sua gonna fosse molto corta, oppure con uno spacco, in modo che fosse facile da sollevare dietro. Ovviamente, F. non usava mai le mutandine: glielo avevo vietato quando aveva accettato di essere completamente mia.





Per quanto fosse molto alta, di solito F. arrivava nel mio ufficio sfoggiando tacchi altissimi, che le valorizzavano le sue gambe snelle, e la facevano ancheggiare in un modo molto piacevole. Prima di arrivare al box con la mia scrivania, F. doveva attraversare il corridoio di un enorme open space, nel quale erano disposte in ordine regolare le scrivanie di decine e decine di impiegati. Il mio box era in fondo all'open space, separato dagli altri solo da una barriera di vetro trasparente.





F. percorreva il più velocemente possibile il lungo corridoio in mezzo alle scrivanie dell'open space, con la testa alta e lo sguardo fisso verso la porta di vetro del mio ufficio. Mentre F. camminava , il brusio dell'open space si attenuava, fino a ridursi a un imbarazzante silenzio. Tutti sapevano dove F. stava andando, e perchè. Man mano che camminava, F. diventava sempre più rossa per la vergogna. Gli occhi di tutti erano su di lei.





Quando F. entrava nel mio ufficio, chiudeva accuratamente la porta di vetro. All'interno, i rumori dell'open space arrivavano attenuati; ma le pareti trasparenti erano così pulite che a volte sembrava che non ci fossero.

Io restavo seduto dietro la scrivania. F. sapeva già cosa doveva fare: si inginocchiava davanti a me, tra le mie gambe, estraeva il mio sesso e cominciava a succhiarlo con devozione. Il piano della scrivania, aperta sotto, nascondeva il mio sesso e la bocca di F., che lo stava ingoiando. Tutto il resto (la posizione di F. inginocchiata tra le mie gambe, le mie mani che le accarezzavano i capelli e la guidavano mentre mi dava piacere) era perfettamente visibile dall'open space. F. lo sapeva bene: questo faceva parte del nostro patto.





Quando ero soddisfatto della bocca di F., scostavo dolcemente il suo viso dal mio sesso, che ora riempiva tutta la sua bocca e premeva contro la sua gola. F. sapeva già cosa fare: piegarsi in avanti sulla scrivania e aprire bene le gambe.





F. apriva con le dita il suo sesso, per offrirmelo. Era già bagnata. Io la accarezzavo a lungo con le dita. Amavo molto il colore e la morbidezza della sua dolce conchiglia rosa.






Ma F. sapeva che io avrei usato la sua apertura più stretta, quella che mi dava più piacere. F. si preparava per essere usata, succhiando più volte le sue dita e infilandole, bagnate di saliva, dentro di lei. Questo era necessario, perchè F. era piacevolmente stretta: non sarebbe stato possibile penetrarla senza prima aprirla adeguatamente. Inoltre, il fatto di essere usata in pubblico, protetta dagli sguardi degli estranei solo da una sottile parete di vetro trasparente, la rendeva più tesa, più difficile da usare. Anche se molto più eccitata.





Quando penetravo F., non impiegavo molto tempo a godere. Di sera, quando ero a casa con lei, mi prendevo molto più tempo. Ma F. sapeva che, quando ero in ufficio, il mio tempo era prezioso. Mentre la stavo usando, F. teneva la testa poggiata sul piano della scrivania, e il suo viso non era visibile attraverso i vetri trasparenti del mio box. Ma F. sapeva che tutti, al di là del vetro trasparente, la stavano guardando.

Quando stavo per raggiungere il massimo del piacere, quando il mio sesso la riempiva completamente, F. si apriva, si abbandonava completamente a me. A volte, in quei momenti, le sollevavo la testa, afferrandola dolcemente per i capelli, in modo da vedere il riflesso del suo volto sul vetro del box. Il viso di F. aveva un'espressione dolcissima, estatica. Simile a quella di una santa del Bernini.




Dopo aver riempito F. con il mio sperma, la accarezzavo dolcemente sui capelli, sul viso, sul sesso (ora vergognosamente bagnato) ed estraevo il mio sesso, guardando la sua piccola, rosea apertura che si richiudeva. Poi restavo in piedi vicino a lei. F. si inginocchiava docilmente davanti a me, ancora una volta felice di avermi fatto godere, e succhiava scrupolosamente il mio sesso, ripulendolo dai miei e dai suoi umori.

Poi F. si rivestiva frettolosamente, mi baciava ed usciva velocemente dal mio ufficio, attraversando di nuovo il lungo corridoio tra le scrivanie dell'open space, sotto gli occhi degli impiegati. F. era rossa di vergogna (ma anche di piacere), e camminava con la testa alta, gli occhi fissi in punto distante davanti a lei. Sapeva che il suo corpo, la sua bocca, i suoi capelli erano impregnati dell'odore del mio sesso.

F. camminava con le gambe strette, le natiche serrate, come se avesse paura che il mio sperma, che la riempiva, oppure i succhi del suo sesso, impregnato di umori, potessero cominciare a colare tra le sue gambe, prima ancora che raggiungesse il pianerottolo alla fine dell'open space. F. era troppo ansiosa: erano necessari diversi minuti prima che questo succedesse ...




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Oltre il delta di Venere by S. Naporaz is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.

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